Svādhyāyā, il quarto niyama

स्वाध्यायाद् इष्टदेवतासंप्रयोगः ॥ २.४४ ॥

svādhyāyād iṣṭadevatāsaṃprayogaḥ || 2.44 ||

«Per effetto della preghiera ci si incontra con la divinità prescelta» 

Siamo arrivati al quarto e penultimo niyama, svādhyāyā. Il termine deriva dalla radice sanscrita sva, che significa “sé” o “proprio”, e adhyaya, che significa “lezione”, “lettura” o “conferenza”. Può anche essere interpretato come proveniente dalla radice dyhai, che significa “meditare” o “contemplare”. Entrambe le interpretazioni connotano uno studio approfondito del sé, supportato dalla recitazione dei mantra e in generale dei testi sacri. 

Con svādhyāyā ci avviciniamo alla sfera più elevata dello yoga: solo attraverso uno studio profondo del sè possiamo giungere a una comprensione più elevata e di unione. 

La meditazione e la pratica del respiro consapevole sono le basi. Il lavoro sul tappetino è il primo step per andare verso questa conoscenza: come pratichiamo le asana? Ci distraiamo o riusciamo ad essere presenti? Com’è il nostro respiro? Breve, affannato, lungo, profondo? Viene dall’addome o dal torace?

Svādhyāyā però non si può restringere al solo momento in cui siamo sul tappetino, la vera sfida arriva nel quotidiano: mettersi in gioco ogni momento, osservarsi nei comportamenti, nelle nostre re-azioni, nelle parole.

Come reagisco quando sono nervoso, arrabbiato, quando qualcosa non va come mi aspettavo? Ma posso anche osservare come mi vesto, come ringrazio, come mangio… tutti questi piccolissimi gesti quotidiani ci dicono chi siamo veramente. Anche osservare i propri pensieri è un ottimo lavoro: realizzare quali pensieri entrano regolarmente nella nostra mente ci aiuta a diventare consapevoli di molti aspetti di noi stessi che magari a primo acchito tendiamo a sottovalutare.

La pratica di svādhyāyā richiede satya, (verità), per vedere noi stessi da un punto di vista onesto, tāpas (disciplina), ahiṃsā (non violenza), che ci ricorda di guardare a noi stessi senza giudizio o critica, ma con amore e compassione. Amore e compassione sono sempre la base per ottenere un sano risultato.

“Conoscere gli altri è intelligenza; conoscere te stesso è la vera saggezza. Padroneggiare gli altri è forza; padroneggiare te stesso è il vero potere.“
Lao Tzu 

Buona pratica a tutti!

Tāpas, il fuoco interiore

कायेन्द्रियसिद्धिरशुद्धिक्षयात्तपसः॥४३॥

Kāyendriyasiddhiraśuddhikṣayāttapasaḥ||2.43||

«Dalla distruzione delle impurità mediante la volontà cosciente (tāpas) si ottiene la perfezione degli organi di senso e del corpo»

Tāpas è i terzo niyama e deriva dalla radice sanscrita del verbo tap che contiene diversi significati fra i quali prima di tutto calore e poi volontà, fervore, rigore ascetico. Tāpas è la disciplina che nello yoga ci permette di ottenere, come il versetto sopra dice, il pieno controllo degli organi di senso, del corpo e della mente.

L’associazione simbolica con l’elemento fuoco, agni nella tradizione indiana, è molto importante: il fuoco porta ad un processo di trasformazione che produce energia sotto forma di calore, luce. Ed è proprio la determinazione a perseguire il cammino verso la liberazione che alimenta il nostro fuoco interiore e che ci permette di bruciare le impurità del corpo grazie a qualità come l’autodisciplina, la forza di volontà, l’ardore, la pazienza e la piena intenzione di raggiungere lo scopo. Questo è quindi tāpas, il cammino dello yogi verso la piena consapevolezza di sè.

Tāpas è il compendio delle cinque virtù di “yama” e delle prime due di “niyama, che insieme formano i primi due rami dello yoga. 

Il ricercatore spirituale che realizzi la propria ascesi è colui il quale vive la vita secondo queste importanti virtù e che si mantiene in salute mediante la pratica delle posizioni, la giusta attenzione al proprio respiro, un’alimentazione sana ed equilibrata nel rispetto dell’ambiente e della vita di tutti gli esseri, l’abitudine a meditare costantemente. Questo è quanto la scienza dello yoga insegna per apprendere una conoscenza autentica e assoluta della vita, per esplorare la realtà e acquisire consapevolezza del proprio essere.

Saṅtoṣā, la gioia dell’accontentarsi

संतोषाद् अनुत्तमः सुखलाभः ॥४२॥

saṅtoṣād anuttamaḥ sukhalābhaḥ ॥42॥

Dalla contentezza scaturisce la felicità suprema

Saṅtoṣā è il secondo niyama descritto negli Yoga Sutra di Patanjali. Il termine deriva dal sanscrito sam, che significa “completamente” o “del tutto”, e “toṣā”, (pronunciato tosha), che significa “soddisfazione” o “accettazione”.

Saṅtoṣā è un atteggiamento. Se siamo abituati ad essere infelici e brontolare, rischiamo di essere infelici e brontolare anche nelle migliori situazioni.

Questo niyama ci insegna che la forza della felicità è misurata dal nostro atteggiamento davanti alle situazioni avverse. Se tutto va liscio, il nostro sorriso non vale nulla: dovremmo imparare a sorridere anche quando le nostre sicurezze vacillano o addirittura crollano

Saṅtoṣā è una pratica. Essere felici incondizionatamente è una pratica. E dobbiamo svilupparla da soli, perché nessun altro può farlo per noi. Se qualcun altro o qualcos’altro ce la dà, sarà solo una felicità temporanea.

Saṅtoṣā è strettamente collegato con il primo niyama, śaucā. Quando Patanjali scrive che śaucā, la purezza, comporta l’abbandono della fisicità e la cessazione del contatto fisico con le cose esterne, intende che se siamo costantemente in contatto con altre persone, allora non permettiamo al nostro vero io di emergere e mostrarsi. Dal momento che siamo sempre in associazione con qualcun altro, ci perdiamo e non sappiamo chi siamo, non ci conosciamo. Per questo dobbiamo mantenere un po’ di distanza e un po’ di tempo per noi stessi: per imparare a conoscere qual è la nostra vera forza, qual è la nostra vera debolezza, qual’è la parte più pura e autentica di noi, quella che non può essere corrotta. Solo quando avremo sviluppato śaucā potremo scoprire saṅtoṣāla vera contentezza.

Ma come fare, quando siamo sopraffatti da un’emozione forte?

Pensiamo alla tragedia della morte. Quando qualcuno muore, la miseria prende il sopravvento e quel periodo è chiamato aśaucā, nel senso che non c’è śaucā, non c’è purezza perché la mente è afflitta dalla tristezza. Quindi in India, i 10 giorni dopo la morte di qualcuno sono considerati aśaucā: per 10 giorni si può piangere, affliggersi, autocommiserarsi.

L’undicesimo giorno la famiglia si riunisce e festeggia, indossando abiti nuovi e scambiandosi doni: la vita continua. Addirittura, se muore una persona con un elevato piano spirituale, non c’è lutto nemmeno per un giorno. Ogni momento è una celebrazione perché lo spirito è onnipresente.

Allo stesso modo, pensiamo a un evento diametralmente opposto: la nascita di un bambino. Anche in questo caso c’è aśaucā per dieci giorni, perché siamo così euforici per la nuova anima che non siamo veramente presenti a noi stessi. Quindi si festeggia, si dimenticano tutti gli impegni, si gioisce e basta. All’undicesimo giorno, si torna presenti.

Ecco che la vera contentezza risiede in un equilibrio delle emozioni, non nell’euforia, che invece è temporanea. Ecco perché śaucā e saṅtoṣā vanno insieme. Se non c’è śaucā, non può esserci saṅtoṣā.

Buona pratica della contentezza a tutti!

Śauca, il primo Niyama

शौचात् स्वाङ्गजुगुप्सा परैरसंसर्गः॥४०॥

 śaucāt svāṅga-jugupsā parairasaṁsargaḥ ॥40॥

La purezza comporta l’abbandono della fisicità e la cessazione del contatto fisico con le cose esterne

Così viene introdotto negli Yoga Sutra di Patanjali il termine Śauca, il primo fra gli Niyama, che viene generalmente tradotto come purezza, pulizia. Fra i suoi vari significati incontriamo anche defecazione, cosa che rende ben chiaro sotto quale aspetto dobbiamo considerare questa pulizia. E infatti quando parliamo di purificazione, la tradizione ayurvedica intende proprio una pulizia del corpo accurata, eseguita attraverso gli shatkarma, le sei azioni purificatrici di cui ho già scritto ma di cui lascio qui un piccolo riassunto:

  • Dhauti, per la pulizia del tratto digestivo superiore;
  • Basti, per la pulizia del colon.
  • sutra neti , che riguarda la pulizia nasale; per questa pulizia si può anche ricorrere a una versione più blanda, jala neti, che anche se non è segnato fra gli shatkarma può comunque essere un valido aiuto
  • Trataka, che riguarda la pulizia degli occhi.
  • Nauli, che riguarda la pulizia e il rafforzamento dell’addome (e sul quale noi stiamo lavorando proprio ora in classe abituandoci a uddiyana bandha);
  • Kapalabhati, per la pulizia dei polmoni e dei bronchi, ma che ha anche un effetto rinforzante sul sistema nervoso e tonificante per gli organi digestivi

Quindi la pratica personale comincia dalla purificazione del corpo, per poi proseguire in territori sempre più sottili come parole, azioni e pensieri.

Il versetto dopo infatti recita:

सत्त्वशुद्धिसौमनस्यैकाग्र्येन्द्रियजयात्मदर्शनयोग्यत्वानि च॥४१॥

 sattva-śuddhiḥ saumanasya-ikāgry-endriyajaya-ātmadarśana yogyatvāni ca ॥41॥

I. K. Taimni traduce questo versetto così: From mental purity (arises) purity of Sattva, cheerful-mindedness, one-pointedness, control of the senses and fitness for the vision of the Self.

Un’altra traduzione che mi piace molto di questo passo si trova ne “Il cuore dello Yoga” di T.K.V. Desikachar, e recita:

Praticare la pulizia rivela ciò che va continuamente pulito e ciò che invece è eternamente puro. Ciò che si corrompe è esterno a noi, ciò che non si corrompe è profondamente in noi.

Quindi, pulizia in senso profondo, partendo dal grosso per andare poi sempre più in profondità, fino a trovare quel qualcosa che è sempre puro e che mai potrà essere contaminato.

Buona pulizia e buon cammino a tutti!

Niyama, il secondo ramo dell’Ashtanga Yoga

यमनियमासनप्राणायामप्रत्याहारधारणाध्यानसमाधयोऽष्टावङ्गानि॥२९॥
Yamaniyamāsanaprāṇāyāmapratyāhāradhāraṇādhyānasamādhayo’ṣṭāvaṅgāni||29||
Gli otto gradi dello Yoga sono: Yama – Niyama – Asana – Pranayama – Pratyahara – Dharana – Dhyana – Samadhi

eight-fold-path

Ed eccoci al secondo ramo dell’Ashtanga Yoga, i Niyama.
Mentre gli yama sono principalmente focalizzati su comportamenti morali, universali e generali, che dovrebbero essere comuni a chiunque e non solo a uno yogi, con gli Niyama ci soffermiamo soprattutto sulla qualità della relazione che intratteniamo con noi stessi.

 

शौचसन्तोषतपःस्वाध्यायेश्वरप्रणिधानानिनियमाः॥३
Śaucasantoṣatapaḥsvādhyāyeśvarapraṇidhānāni niyamāḥ||32||
Niyama sono la purezza, la contentezza, l’austerità, lo studio e la conoscenza di sé, l’abbandono alla volontà divina

Il termine niyama può essere tradotto come dovere o osservanza.
La pratica di questo secondo ramo dell’Ashtanga Yoga ci aiuta a mimagesantenere un ambiente positivo nel quale crescere e ci dona quel giusto equilibrio tra autodisciplina e forza interiore necessario per progredire nello yoga.

I Niyama si suddividono in cinque filoni: Sauca, Samtosa, Tapas, Svadhyaya, Isvara Pranidhana

Potremmo dire che yama e niyama sono le cementa su cui si poggia l’ashtanga yoga. Essi creano una solida e forte base che permette agli yogi di muoversi sempre più profondamente con forza, concentrazione e quindi successo.  Praticare yama e niyama è un viaggio lungo e impegnativo. L’importante è non desistere e continuare nell’osservazione e nel lavoro su se stessi. Citando Swami Sri Kripalvanandaji said, “Quando raccogli un petalo dalla ghirlanda degli yama e niyama, l’intera ghirlanda seguirà”.

Quinto Yama, Aparigraha

अपरिग्रहस्थैर्ये जन्मकथंता संबोधः
aparigraha-sthairye janma-kathaṁtā saṁbodhaḥ II Sutra 39
“Allorché lo yogin è fermamente stabile nella non-possessività, sorge la conoscenza dei “come” e “perché” dell’esistenza

Si980xamo arrivati infine all’ultimo degli Yama, Aparigraha.
Esso viene abitualmente tradotto come assenza di avidità, ma il termine non possessività è molto più corretto.
Per non possesso non si deve intendere il mero possesso materiale, ma anche mentale e quindi infine anche spirituale. Quante volte ci rendiamo conto, magari dopo qualche ora (se ci va bene, più probabilmente dopo mesi o anni!), di aver perso tempo rincorrendo il nulla, attaccati a un pensiero, una sensazione che in ultima analisi non era altro che un falso desiderio, una percezione distorta, una sensazione che in verità non faceva neanche parte di noi?

Abbiamo tutti degli obiettivi, ma il tempo che si ha a disposizione viene spesso utilizzato  in maniera poco efficiente, per reagire mentalmente a fenomeni esterni al nostro vero sentire. Siano essi una persona che ci parla, uno schermo di computer che ci tempesta di informazioni, un evento nella strada accanto: qualsiasi cosa sposta la nostra attenzione dal nostro vero sentire all’oggetto posto in questione.
Essere capaci di eliminare il superfluo, l’inutile, tutto ciò che può deviare, rallentare, ostacolare, distrarre, fermare o inquinare la nostra vera via è Aparigraha.

A volte si tende a pensare che nel non volere di più, nell’accontentarsi ci sia una sorta di rassegnazione passiva e io stessa agli inizi lo pensavo e mi ribellavo a questa placida “rilassatezza” di alcuni insegnanti… anzi, mi dava proprio fastidio!
Ben lungi dall’essermi illuminata, per lo meno mi sono calmata uletgowithloven po’ e ora so che non si tratta di rassegnazione, né di passività nei confronti della vita. Al contrario, si tratta di vivere più intensamente e in una maniera più appagante.
Aparigraha non vuole censurare, né boicottare ciò che materialmente possediamo, ma eliminare gli attaccamenti e le dipendenze che ne possono derivare, rendendoci infine più liberi e ricchi, consci di ciò che abbiamo.

Imparando ad “accogliere e accettare” ciò che arriva per come è infatti, senza ricamarci sopra, ci si può accorgere che forse abbiamo già molto più di quanto credessimo, sia a livello materiale che a livello più sottile. Ci rendiamo conto anche che la perdita è un fatto della vita, così come il cambiamento. E guardando a questi fatti col dovuto distacco, potremmo persino notare che è proprio quel distacco che ci permette di sentirci maggiormente in comunione col tutto, a disperderci di meno e a non limitare il nostro amore e le nostre emozioni. Si tratta in qualche modo di un risparmio energetico, che accresce la nostra empatia senza sciuparci. E quando siamo radicati nel godere di ciò che già abbiamo e siamo, allora Patanjali dice, “sorge la conoscenza”.

Quarto Yama, Brahmacharya

ब्रह्मचर्य प्रतिष्ठायां वीर्यलाभः ॥३८॥
brahma-charya pratishthayam virya-labhah ||38||
Quando si è
fermamente stabiliti in Brahmacharya si ottiene vigore (Yoga Sutra)

Brahmacharya è il quarto e quindi penultimo fra gli yama, di cui ho già scritto una breve introduzione qui.
“Brahma” è il Dio delguru-yogila creazione, il termine con cui viene descritto significa letteralmente illimitata immensità, da considerarsi come unica e indivisibile; mentre “charya” può essere inteso come andare verso.
Nell’induismo, Brahmacharya si riferisce al primo dei quattro ashrama, gli stadi della vita descritti negli antichi testi. Il sistema degli ashrama divide la vita umana in quattro livelli, ad ognuno dei quali il sādhaka, il praticante,  ottiene un certo sviluppo.

I primi 24 anni di vita sono segnati dal periodo del brahmacharya, dove il sādhaka apprende dal guru e impara il controllo dei sensi; fra i 25 e i 49 anni  abbiamo l’epoca del grihastha, dove il praticante forma la sua famiglia e cresce i figli; fra i 50 e i 74 anni c’è il periodo del vanaprastha, quando si condivide la propria conoscenza con gli altri e ci si prepara ad allontanarsi dal mondo materiale; dai 75 anni in su infine è l’epoca del sannyāsa, spesso tradotto come “rinunciatario”. Questo è lo stadio finale della vita, in cui si rinuncia ai beni materiali e ci si dedica interamente al proprio cammino spirituale.

Brahmacharya quindi rappresenta il primo stadio della vita. Questo è un periodo di apprendimento e include la pratica del celibato. In questo senso il termine connota la castità, virtù che aiuta il giovane a indirizzare tutte le sue energie verso lo studio sotto la guida di un valido guru.
Molto spesso Brahmacharya viene quindi spiegatguru_discipleo come astinenza sessuale tout court, ma descritto così riduciamo di moltissimo il suo senso più profondo.
Anche se l’astinenza sessuale è un aspetto maggioritario del brahmacharya, ne è comunque solamente una parte, sebbene certamente una delle più difficili da controllare.
Brahmacharya è soprattutto un atteggiamento mentale nei confronti degli aspetti sensuali ed implica vivere in maniera sobria, con autocontrollo e moderazione nei pensieri, nelle parole, nelle azioni. Significa essere padroni dei propri sensi, essere capaci di tenere ben salda la mente in un atteggiamento di distacco consapevole dagli oggetti, dalle persone, dalle circostanze sia favorevoli che contrarie, dai nostri stessi pensieri.

Spesso purtroppo la gente, nella697 ricerca di una pratica più sostenuta, si costringe nel celibato senza esserne convinta, senza sentirsi veramente a suo agio e soprattutto creando un atteggiamento di rigidità verso tutti gli aspetti della vita. La stessa cosa possiamo vederla negli asana, le posture. Tanta gente si ostina, malgrado il dolore fisico e un corpo stanco che vuole riposare. Allora invece di imparare dallo yoga ad ascoltare il nostro corpo ed in ultimo a conoscere maggiormente noi stessi, non facciamo altro che limitarci ulteriormente, ostinarci in qualcosa che ci pare sia giusto, una formulina matematica creata da qualcun altro che non si sposa con noi o che non sappiamo fare nostra.

Il fine ultimo degli yama e niyama non è quello di imporre un sistema etico e morale che renda la vita tediosa e la mente rigida, ma quello di affievolire il potere delle nostre passioni in modo da canalizzare l’energia verso una coscienza superiore.
Solo a quel punto yama e niyama si trasformeranno da una forma di pratica in una realizzazione che ci porterà verso la libertà e la gioia.

Primo Yama, Ahiṃsā

अहिंसाप्रतिष्ठायां तत्सन्निधौ वैरत्यागः॥३५॥
Ahiṁsāpratiṣṭhāyāṁ tatsannidhau vairatyāgaḥ||35||
Allorché lo yogin è  radicato nella non- violenza, coloro che sono in sua  presenza cessano ogni ostilità

Ahiṃsā significa letteralmente assenza del desiderio di uccidere. Questo aspetto dello yoga è stato praticato e reso famoso dal Mahatma Gandhi, quando indusse la popolazione indiana a liberarsi dalla dominazione britannica in maniera pacifica.mahatma

Gli Yoga Sutra descrivono Ahiṃsā in questo modo: «Quando si è fermamente stabiliti nella non-violenza, vi è abbandono dell’ostilità» (2.35). In sanscrito: “Ahiṃsā –pratishthayam tat-sannidhau vaira-tyagah“, che letteralmente significa “Quando la non violenza è stabilizzata, nelle vicinanze di essa, le tendenze ostili sono eliminate.“

Ahiṃsā non è semplicemente non fare del male agli altri, a noi stessi o all’ambiente, non è un principio passivo, ma è sviluppare empatia verso ogni essere vivente, una eliminazione totale del seme della violenza che è latente in noi. Lo stesso termine non violenza andrebbe poi esaminato, poiché le sfumature sono tante e molto sottili. La stessa indifferenza può essere, ad esempio, una forma di violenza se vogliamo essere onesti.

Ma ovviamente la vera nononviolence-banksy-graffitin-violenza deve essere innanzitutto praticata verso il proprio intero essere (corpo, mente e spirito), diventando colmi di amore profondo per tutte le differenti manifestazioni della vita. La non-violenza infatti sviluppa in noi qualità sublimi come il perdono, il controllo degli istinti aggressivi, l’umiltà, l’amore incondizionato. Solo allora saranno cacciate le tendenze ostili e anche ciò che ci sta intorno risuonerà di questo stato di ahiṃsā.

Questo principio è anche spiegato dalla fisica quantistica: ogni corpo vibra e le sue vibrazioni attirano, agganciano e si uniscono a quelle che incontra sulla sua stessa frequenza d’onda scartando le altre. È la legge di risonanza, anche nota come Legge di Attrazione: tutto nell’Universo vibra continuamente e le vibrazioni che si trovano sulla medesima frequenza si attirano, entrano in contatto proprio perché simili, dando vita a nuova energia.

Terzo Yama, Asteya

अस्तेयप्रतिष्ठायां सर्वरत्नोपस्थानम्॥३७॥
Asteyapratiṣṭhāyāṁ sarvaratnopasthānam||37||
“Quando asteya è radicato nella persona, tutti i gioielli ed i tesori si presentano allo Yogi

Il terzo yama, asteyaAsteya, viene spesso tradotto come non rubare e può essere interpretato in maniera semplicistica come non appropriarsi di ciò che non è nostro. Il senso di questo yama però è molto più articolato e profondo e concerne il concetto di non attaccamento.
Il non attaccamento ci permette sia di non vantarci per una buona azione compiuta, sia di non aspettarci nulla dalle situazioni che si presentano nella nostra vita. È una condizione di equanimità e di sano distacco. Quando le persone o le cose diventano oggetto del nostro desiderio infatti, sviluppiamo aspettative e senso di attaccamento, sottomettendole alla nostra ottica duale di giusto/sbagliato. Ergiamo noi stessi a giudici, ponendo delle etichette alla persona o all’oggetto in questione e finiamo per non accettare più l’essere umano di fronte a noi per ciò che è, ma in quanto “nostro”, fissandogli il ruolo che abbiamo scelto per  lui (il mio compagno, mia madre, mio figlio…).
Così facendo carichiamo di aspettative la persona in base a ciò che per noi è giusto, smettendo di essere grati per l’incontro e per i possibili nuovi orizzonti che la situazione ci può indicare. Di conseguenza sorgono le frustrazioni, le aspettative ed il desiderio di cambiare ciò che non ci piace in chi abbiamo di fronte. Inoltre, agendo in questa maniera carichiamo noi stessi di aspettative e non appena ci discostiamo dal nostro ideale iniziamo a non accettarci più.

Asteya quindi potrebbe anche essere inteso come una sospensione del giudizio. Imparando ad amare, apprezzare, condividere senza alcuna aspettativa, senza istinto di possesso, riusciamo a godere in pieno della bellezza senza rimorsi, vivendola in maniera completa e armonica.
Tornando al significato del sutra quindi, rafforzando il senso morale attraverso l’osservazione dei nostri pensieri, sentimenti, emozioni, evitando di macchiare la coscienza anche con le forme più sottili di appropriazione indebita, otteniamo la chiave di svolta per la trasformazione, e allora

«tutti i gioielli ed i tesori si presentano allo Yogi»

Qualche tempo fa ho scritto un articolo sul concetto di anicca, che proponeva la stessa tematica.bharata
Questa volta racconterò un altro pezzo tratto dal Ramayana, la saga dell’esilio e delle avventure di Rama, che ben si addice al concetto di Asteya.

La storia del Ramayana inizia proprio con questo fatto: la regina Kaikeyi, alla quale è stato concesso dal marito di esprimere due desideri, chiede che Rama, figlio di una precedente moglie del re e designato come successore dal padre, non venga nominato reggente e che al suo posto venga insignito del titolo suo figlio Bharata. Onde evitare possibili problemi Kaikeyi esprime come secondo desiderio che Rama venga mandato in esilio per 14 anni. Il re non può negare queste richieste alla moglie, che un tempo gli aveva salvato la vita, e col cuore spezzato accetta di mandare l’amato Rama in esilio, morendo poco dopo per la tristezza.
Bharata, scoperta l’ingiusta richiesta della madre, rifiuta di occupare il trono e chiede a Rama di tornare ma questi, rispettando le ultime parole del padre, decide di continuare il suo esilio.  Accetta però la richiesta di Bharata di lasciargli i suoi sandali, che vengono posti sul trono sul quale il giovano fratellastro non si siederà mai, per enfatizzare il legame e il rispetto che porta a Rama. Bharata attenderà 14 anni il ritorno di Rama dall’esilio forzato, governando da un eremo con umiltà, buon senso e senza farsi notare.

Secondo Yama, Satya

सत्यप्रतिष्ठायां क्रियाफलाश्रयत्वम्॥३६॥
Satyapratiṣṭhāyāṁ kriyāphalāśrayatvam||36||
Quando la verità è radicata in lui,  egli consegue i frutti dell’azione senza agire

Satya è il secondo ramo degli Yama e significa onesto, sincero o virtuoso.

satyaSatya è un comportamento di verità, una qualità per mantenersi veri nelle parole, nei comportamenti, nei pensieri, ma è anche un modo di perseguire la verità anche all’esterno di noi stessi. Nell’ordinario può capitare di usare parole negative senza farci caso, ma quando si pratica yoga l’attenzione viene portata con sempre maggiore frequenza all’uso corretto di ogni termine o frase.

Infatti, anche se le parole non lasciano delle ferite fisiche, se ne abusiamo sono in grado di produrre seri danni emotivi, così profondi che la psicologia considera l’abuso verbale tanto pericoloso quanto qualsiasi altra forma di maltrattamento, come quello fisico o sessuale. Per questo prima di pronunciare delle parole, quando queste sono ancora soltanto pensieri, è bene capire che facciamo ancora in tempo ad evitare che quella critica, giudizio o negatività esca da noi, trasformandosi in una freccia velenosa.

La parola è soloim-possible l’espressione del pensiero e del relativo comportamento. Partendo perciò dall’aspetto più visibile possiamo purificare anche la causa meno visibile e perciò più sfuggente, quale il pensiero. In generale infatti quando usiamo parole cattive, offensive, ingiuste verso gli altri, prima di tutto stiamo autosabotando noi stessi, mossi principalmente dalla paura.

Bruce Lipton nei suoi libri, (che straconsiglio!), punta molto su questo, spiegando quanto sia stato importante per lui creare l’abitudine della presenza mentale, divenendo consapevole dei suoi pensieri. Come sostiene ne The Honeymoon Effect, “l’obiettivo della presenza mentale è di far sì che ogni azione e decisione derivi dalle proprie aspirazioni e desideri, vale a dire dalla mente conscia, e non dal pilota automatico, la mente subconscia.

Nel 2010 i ricercatori dell’Università di Harvard hanno scoperto che le persone trascorrono quasi la metà delle ore di veglia pensando a qualcosa di diverso da quello che stanno facendo e che questa distrazione li rende infelici (anche quando la loro mente vaga verso soggetti piacevoli). Gli autori hanno scritto: “In conclusione, una mente umana è una mente distratta e una mente distratta è una mente infelice. la capacitwordsà di pensare a quello che non sta accadendo è una realizzazione cognitiva che arriva ad un costo emozionale”. L’infelicità della distrazione, naturalmente, è esacerbata dal fatto che spesso, mentre la nostra mente vaga, i nostri programmi subconsci stanno sabotando i desideri della nostra vita!

Se riusciamo a comprendere che ognuno di noi può attingere ad una sua spiritualità interiore, che può scoprire il sacro nel suo quotidiano, cioè quel qualcosa fatto di verità che il pensiero e le sue false parole non possono toccare e men che meno contaminare, ci troveremo così in una dimensione dove Satya emergerà in modo facile e spontaneo. Satya allora porterà parole vere, sane, costruttive e con esse i relativi pensieri e comportamenti che aiuterebbero l’essere umano nel suo percorso verso la bellezza.