स्वाध्यायाद् इष्टदेवतासंप्रयोगः ॥ २.४४ ॥
svādhyāyād iṣṭadevatāsaṃprayogaḥ || 2.44 ||
«Per effetto della preghiera ci si incontra con la divinità prescelta»
Siamo arrivati al quarto e penultimo niyama, svādhyāyā. Il termine deriva dalla radice sanscrita sva, che significa “sé” o “proprio”, e adhyaya, che significa “lezione”, “lettura” o “conferenza”. Può anche essere interpretato come proveniente dalla radice dyhai, che significa “meditare” o “contemplare”. Entrambe le interpretazioni connotano uno studio approfondito del sé, supportato dalla recitazione dei mantra e in generale dei testi sacri.
Con svādhyāyā ci avviciniamo alla sfera più elevata dello yoga: solo attraverso uno studio profondo del sè possiamo giungere a una comprensione più elevata e di unione.
La meditazione e la pratica del respiro consapevole sono le basi. Il lavoro sul tappetino è il primo step per andare verso questa conoscenza: come pratichiamo le asana? Ci distraiamo o riusciamo ad essere presenti? Com’è il nostro respiro? Breve, affannato, lungo, profondo? Viene dall’addome o dal torace?
Svādhyāyā però non si può restringere al solo momento in cui siamo sul tappetino, la vera sfida arriva nel quotidiano: mettersi in gioco ogni momento, osservarsi nei comportamenti, nelle nostre re-azioni, nelle parole.
Come reagisco quando sono nervoso, arrabbiato, quando qualcosa non va come mi aspettavo? Ma posso anche osservare come mi vesto, come ringrazio, come mangio… tutti questi piccolissimi gesti quotidiani ci dicono chi siamo veramente. Anche osservare i propri pensieri è un ottimo lavoro: realizzare quali pensieri entrano regolarmente nella nostra mente ci aiuta a diventare consapevoli di molti aspetti di noi stessi che magari a primo acchito tendiamo a sottovalutare.
La pratica di svādhyāyā richiede satya, (verità), per vedere noi stessi da un punto di vista onesto, tāpas (disciplina), ahiṃsā (non violenza), che ci ricorda di guardare a noi stessi senza giudizio o critica, ma con amore e compassione. Amore e compassione sono sempre la base per ottenere un sano risultato.
“Conoscere gli altri è intelligenza; conoscere te stesso è la vera saggezza. Padroneggiare gli altri è forza; padroneggiare te stesso è il vero potere.“
Lao Tzu
Buona pratica a tutti!

Tāpas è i terzo niyama e deriva dalla radice sanscrita del verbo tap che contiene diversi significati fra i quali prima di tutto calore e poi volontà, fervore, rigore ascetico. Tāpas è la disciplina che nello yoga ci permette di ottenere, come il versetto sopra dice, il pieno controllo degli organi di senso, del corpo e della mente.





antenere un ambiente positivo nel quale crescere e ci dona quel giusto equilibrio tra autodisciplina e forza interiore necessario per progredire nello yoga.
amo arrivati infine all’ultimo degli
n po’ e ora so che non si tratta di rassegnazione, né di passività nei confronti della vita. Al contrario, si tratta di vivere più intensamente e in una maniera più appagante.
la creazione, il termine con cui viene descritto significa letteralmente illimitata immensità, da considerarsi come unica e indivisibile; mentre “charya” può essere inteso come andare verso.
o come astinenza sessuale tout court, ma descritto così riduciamo di moltissimo il suo senso più profondo.
ricerca di una pratica più sostenuta, si costringe nel celibato senza esserne convinta, senza sentirsi veramente a suo agio e soprattutto creando un atteggiamento di rigidità verso tutti gli aspetti della vita. La stessa cosa possiamo vederla negli asana, le posture. Tanta gente si ostina, malgrado il dolore fisico e un corpo stanco che vuole riposare. Allora invece di imparare dallo yoga ad ascoltare il nostro corpo ed in ultimo a conoscere maggiormente noi stessi, non facciamo altro che limitarci ulteriormente, ostinarci in qualcosa che ci pare sia giusto, una formulina matematica creata da qualcun altro che non si sposa con noi o che non sappiamo fare nostra.
n-violenza deve essere innanzitutto praticata verso il proprio intero essere (corpo, mente e spirito), diventando colmi di amore profondo per tutte le differenti manifestazioni della vita. La non-violenza infatti sviluppa in noi qualità sublimi come il perdono, il controllo degli istinti aggressivi, l’umiltà, l’amore incondizionato. Solo allora saranno cacciate le tendenze ostili e anche ciò che ci sta intorno risuonerà di questo stato di ahiṃsā.
Asteya, viene spesso tradotto come non rubare e può essere interpretato in maniera semplicistica come non appropriarsi di ciò che non è nostro. Il senso di questo yama però è molto più articolato e profondo e concerne il concetto di non attaccamento.
Satya è un comportamento di verità, una qualità per mantenersi veri nelle parole, nei comportamenti, nei pensieri, ma è anche un modo di perseguire la verità anche all’esterno di noi stessi. Nell’ordinario può capitare di usare parole negative senza farci caso, ma quando si pratica yoga l’attenzione viene portata con sempre maggiore frequenza all’uso corretto di ogni termine o frase.
l’espressione del pensiero e del relativo comportamento. Partendo perciò dall’aspetto più visibile possiamo purificare anche la causa meno visibile e perciò più sfuggente, quale il pensiero. In generale infatti quando usiamo parole cattive, offensive, ingiuste verso gli altri, prima di tutto stiamo autosabotando noi stessi, mossi principalmente dalla paura.
à di pensare a quello che non sta accadendo è una realizzazione cognitiva che arriva ad un costo emozionale”. L’infelicità della distrazione, naturalmente, è esacerbata dal fatto che spesso, mentre la nostra mente vaga, i nostri programmi subconsci stanno sabotando i desideri della nostra vita!