Shatkarma, le sei tecniche di depurazione

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Le tre nadi principali, Ida, Pingala e Shushumna

Shat significa “sei” e karma significa “azione”. Gli shatkarma sono sei azioni, o pratiche come comunemente si dice, di purificazione, dove non intendiamo solamente purificare e rinvigorire il corpo, ma anche temprare la forza di volontà e la concentrazione mentale.

A livello fisico, con gli shatkarma portiamo armonia tra i tre Dosha, le tre tipologie di costituzione dettate nell’Ayurveda, l’antica scienza medica indiana. Questi sono vata – aria o vento; pitta – bile o fuoco; e kapha – muco o flemma.  Sempre a livello fisico, andiamo inoltre ad equilibrare le due nadi principali, che potremmo tradurre come meridiani, sebbene non corrispondano precisamente a quelli cinesi. Queste nadi principali sono Ida, collegata alla narice sinistra, e Pingala, collegata alla narice destra. In mezzo a loro scorre Shushumna nadi, che attraversa tutti i chakra partendo dal primo, Muladhara, alla base della colonna vertebrale, giungendo al settimo, Ajna, situato sulla sommità del capo. Secondo la tradizione indiana questa nadi è inattiva nella maggior parte degli esseri. Essa si risveglia grazie ad una respirazione consapevole e bilanciata.

Ma soffermiamoci sui tre sutra in cui l’Hatha Yoga Pradipika parla degli shatkarma:

मेद-शलेष्ह्माधिकः पूर्वं षहट-कर्माणि समाछरेत |
अन्यस्तु नाछरेत्तानि दोष्हाणां समभावतः || २१ ||
meda-śleṣhmādhikaḥ pūrvaṃ ṣhaṭ-karmāṇi samācharet |
anyastu nācharettāni doṣhāṇāṃ samabhāvataḥ || 21 ||
Quando il grasso o muco è eccessivo, gli shatkarma devono essere praticati prima (del pranayama). Gli altri, in cui i dosha (cioè flemma, vento e bile) sono equilibrati non ne hanno bisogno

Infatti uno yogi che abbia oramai bilanciato i tre dosha, non ha bisogno di praticare giornalmente i shatkarma. Più avanziamo nella pratica, meno ne abbiamo bisogno. Essi sono per l’appunto uno strumento, da usare se necessario.

धौतिर्बस्तिस्तथा नेतिस्त्राटकं नौलिकं तथा |
कपाल-भातिश्छैतानि षहट-कर्माणि परछक्ष्हते || २२ ||
dhautirbastistathā netistrāṭakaṃ naulikaṃ tathā |
kapāla-bhātiśchaitāni ṣhaṭ-karmāṇi prachakṣhate || 22 ||
I sei tipi di depurazione sono: Dhauti, Basti, Neti, Trâtaka, Nauli e Kapâla Bhâti. Questi sono chiamati le sei azioni

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कर्म षहट्कमिदं गोप्यं घट-शोधन-कारकम |
विछित्र-गुण-सन्धाय पूज्यते योगि-पुणगवैः || २३ ||
karma ṣhaṭkamidaṃ ghopyaṃ ghaṭa-śodhana-kārakam |
vichitra-ghuṇa-sandhāya pūjyate yoghi-pungghavaiḥ || 23 ||
Questi shatkarma, che effettuano la purificazione del corpo, devono essere mantenuti segreti. Hanno molteplici risultati meravigliosi e sono tenuti in grande considerazione da yogi eminenti

Senza imparare a fondo gli shatkarma il controllo interno muscolare e nervoso non viene sviluppato e senza questo controllo il pranayama rimane impossibile. Per questo, imparare gli shatkarma è di estrema importanza per uno yogi.

Yin Yoga, il lato “freddo” dello Yoga

Lo Yin Yoga è uno stile basato sul concetto taoista dello yin e yang.
È ancora poco conosciuto in Italia, sebbene piano piano stia prendendo piede. Paul Grilley può essere considerato, se non forse il creatore, per lo meno colui che ha organizzato questo sistema in uno stile a sé stante e che l’ha fatto conoscere al mondo.

yin-ideogramaYin può essere tradotto come il lato in ombra  della collina, mentre lo Yang ne è il lato soleggiato. Lo Yin rappresenta la natura femminile, la Luna, il buio, il freddo, la passività, la terra, l’acqua, l’ovest. Lo Yang rappresenta invece la natura maschile, il Sole, la luce, il caldo, l’attività, la forza, il cielo, il fuoco, l’est.

Basandosi su questi due principi, lo yin yoga vuole contrapporsi – e di conseguenza bilanciare) alla pratica dell’hatha o del vinyasa yoga, che stimolano maggiormente i muscoli, di natura mobili e flessibili, quindi corrispondenti all’energia yang.
Questa pratica vuole quindi rilassare i muscoli e stimolare invece il tessuto connettivo, relativamente rigido e quindi di natura yin.

Cyin-yang0on tessuto connettivo si indicano vari tipi di tessuto che hanno in comune la funzione di provvedere al collegamento, al sostegno e nutrimento di altri tessuti dei vari organi.
Secondo la teoria dei meridiani della medicina cinese, il tessuto connettivo ospita i punti d’incrocio dei canali (meridiani secondo la tradizione cinese o nadi secondo quella indiana), attraverso i quali scorre l’energia vitale, detta anche Prana o Qi. Tale flusso energetico rallenta e ristagna, soprattutto attorno alle articolazioni (bacino e parte bassa della schiena, seguito delle ginocchia e le spalle), in mancanza di una corretta attività fisica.

La pratica yin, lenta e consapevole, in cui ogni posizione è mantenuta passivamente molto a lungo, (fino ad oltre venti minuti), applica una tensione ottimale sul tessuto connettivo ed è quindi molto utile per aprire e stimolare il tessuto che si fortifica e si apre dolcemente, creando più spazio tra le articolazioni, migliorandone il movimento e rendendole più salde, stabili e forti. In questa maniera si agisce, invece che sul singolo muscolo, sulle catene muscolari. Questa metodologia di allungamento permette, tra l’altro, di eliminare i “compensi” che il corpo crea nel momento in cui viene stirato. Riusciamo così a  migliorare in maniera reale la flessibilità e incrementare di conseguenza il flusso energetico.

A livello più sottile, sebbene le posizioni siano tenute in maniera passiva, vi è una fatica reale nel mantenerle poiché, per essere efficace, si dovranno eliminare tutti i compensi che il corpo crea per non sentire dolore. È quindi  importante respirare profondamente, per fare sì che il diaframma si muova in maniera fisiologica.
Non è un caso che questa pratica sia molto vicina alla meditazione più pura, molto più delle versioni dinamiche di yoga. La mente non è sempre portata verso un nuovo asana, verso un nuovo movimento e deve così imparare a restare calma e in osservazione senza perdersi in pensieri, per riuscire a rimanere nel qui ed ora. Respiro dopo respiro, riusciamo così a rilassare il corpo e le sue tensioni. Tensioni che mai risiedono solamente nel corpo.

Kapalabhati, la respirazione del cranio lucente

अथ कपालभातिः
भस्त्रावल्लोह-कारस्य रेछ-पूरौ ससम्भ्रमौ |
कपालभातिर्विख्याता कफ-दोष्ह-विशोष्हणी || ३५ ||
atha kapālabhātiḥ
bhastrāvallohakārasya rechapūrau sasambhramau |
kapālabhātirvikhyātā kaphadoṣhaviśoṣhaṇī || 35 ||
Eseguite l’espirazione e l’inspirazione rapidamente come i mantici di un fabbro. Questo si chiama kapalbhati e distrugge tutti i disordini causati dal muco.

Kapalabhati è l’ukapalabhatiltimo dei sei shatkarma descritti nell’Hatha Yoga Pradipika. “Kapala” significa teschio , mentre “Bhati” significa splendere, pulito. Per questo, spesso Kapalabhati viene tradotto come “cranio splendente”.

Questa traduzione rispecchia appieno uno dei maggiori benefici di questa tecnica, che è l’ossigenazione del cervello.
Nella respirazione abituale, l’inspirazione è la fase attiva, che corrisponde al gonfiarsi dei polmoni e a una diminuzione del volume del cervello. L’espirazione è invece la fase passiva, durante la quale le dimensioni del cervello aumentano. Durante Kapalabhati si provoca una respirazione forzata e opposta rispetto a quella abituale, in cui l’espirazione è attiva e quasi brutale, mentre l’inspirazione è passiva. Se si pensa che il cervello è il più gran consumatore di ossigeno del corpo, si comprende immediatamente l’importanza di questa tecnica.

La tecnica consiste nell’espirare profondamente ed esclusivamente dal naso fino a contrarre gli addominali (può aiutare agli inizi pensare ad uno double-acting-bellowsstarnuto o, come dice l’Hatha Yoga Pradipika, al suono del mantice di un fabbro). A questa forte contrazione segue una inspirazione passiva e lenta, che permette ai muscoli addominali di rilassarsi. L’intero processo deve avvenire rapidamente grazie all’attività dei muscoli addominali, mentre i movimenti del busto sono minimi. Si continua così per vari cicli, che variano a seconda dell’esperienza del praticante. Spesso questa tecnica viene eseguita molto velocemente, ma io (e soprattutto chi ne sa più di me) lo sconsiglio. Meglio mantenere un ritmo regolare, non lento ma assolutamente non frenetico, soprattutto quando siamo agli inizi. Più ci abituiamo a mantenere una postura corretta, con il busto perfettamente eretto, più possiamo aumentare la velocità, ma senza mai esagerare.

Kapalabhati elimina una forte quantità di anidride carbonica e al contempo, con l’inspirazione lunga e lenta, porta un flusso fresco di ossigeno a tutto il corpo, stimolando i neuroni e l’ipotalamo. Ma i benefici non si fermano qui: accelera la circolazione sanguigna, tonifica la cintura addominale, mobilizza il diaframma e mantiene l’elasticità polmonare. È un’ottima pratica per rimuovere la stanchezza mentale e può essere praticata facilmente durante la giornata, lontano dai pasti.

Un Weekend di Yoga a San Pietroburgo

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Mikhail e Ilya

Il 15 e 16 ottobre di quest’anno sono stata invitata allo Yoga Rainbow Festival a San Pietroburgo.
Sono stata invitata da Ilya Zhuravlev, insegnante di yoga che ho conosciuto in India nel 2011. Proprio quello stesso anno lui e il suo collega Mikhail Baranov, proprietari dello studio Yoga 108 di Mosca, hanno fondato lo Yoga Rainbow, che viene organizzato ogni anno a maggio in Cirali, Turchia, e poi in differenti città russe.

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San Pietroburgo, la Splendida

Non sono mai stata una grande fan degli yoga festival, mi sembrano un inno al business e alla moda che hanno inondato lo yoga negli ultimi decenni.
Ero però molto curiosa di attendere a questo festival in particolare per vari motivi. Uno era senza dubbio la mia grande passione per la lingua e cultura russa: l’idea di poter aggiungere all’esperienza formativa quella ludico-culturale di girare per la magnifica città mi attirava molto.

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Mikhail insegna una classe dedicata ai bandha

Soprattutto però l’interesse era dovuto al fatto che entrambi gli organizzatori sono discepoli di Shailendra Sharma, guru del Krya Yoga del quale anche il mio insegnante in Italia è pupillo.

Non conoscevo bene Ilya, ma lo scambio che avevamo avuto in India mi aveva subito fatto intendere che era una persona onesta, aperta e con un profondo e vero interesse per lo yoga. Dal 2001 gira in lungo e in largo l’India, nonostante le difficoltà per i russi ad ottenere il visto, sperimentando e sperimentandosi.
Queste ragioni erano più che sufficienti per spingermi ad andare.

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Yoga terapeutico

Così, preso il biglietto, sono partita e devo dire che le mie aspettative sono state felicemente confermate. Dello strascico modaiolo tipico di Milano neanche l’ombra. In due giorni si sono susseguite molte lezioni che hanno toccato vari aspetti della disciplina: anatomia, yoga per le donne, lezioni di approfondimento sulla tecnica dei bandha, lezioni di filosofia, oltre ovviamente a quelle di asana. Niente shops, cianfrusaglie, luci sfarzose, 14633139_1125159104200316_7350266984886061234_oninnoli vari!

Molte lezioni vertevano sull’aspetto terapeutico della disciplina, senza perdere il divertimento di provare asana più stravaganti, ma senza fretta, con calma ed equilibrio, insomma come dovrebbe essere (ma spesso non è).
I partecipanti erano aperti, curiosi e attenti e, sebbene il mio russo non sia così buono, è stato sufficiente per capire che la media aveva una conoscenza approfondita dello yoga e lo praticava in maniera autentica.

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Un greco nella già “freddina” Pietroburgo

Ospite straniero è stato Anastasis Kotsogiannis, un sorridente insegnante greco che vive estraniato dal mondo a Creta, senza cellulare, nella maniera più spartana possibile. In Turchia gli ospiti stranieri sono di più, fra questi spiccano certamente i nomi di Mark e Joan Derby, che ho potuto seguire in Italia per una cinque giorni speciale e che ho apprezzato per la loro maniera più equilibrata e salutare di affrontare la pratica spesso aimé insegnata in modalità “no pain no game” dell’ashtanga vinyasa yoga.

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Interessante è stato parlare con Ilya della situazione dello yoga in Russia: la chiesa ortodossa è molto forte e il rischio abbastanza elevato che venga fatto ostracismo contro questa disciplina, vista come una pratica esoterica e quindi insana.
Chissà, forse proprio questo rischio sta salvando lo yoga in Russia da un capitalismo sfrenato, mantenendolo più nascosto, più di nicchia. Cosicché solamente chi è veramente interessato si avvicini.

Sarvângâsana, i benefici

Dopo aver parlato dei lati più “esoterici” di Sarvângâsana, ora è la volta di parlare dei suoi benefici a livello prettamente fisico.
Sicuramente si tratta di una delle asana più approfondite, studiate ed amate.
B. K. S. Iyengar afferma che la sua importanza non potrà mai essere lodata abbastanza ed arriva perfino a definirla una della grazie più grandi lasciate in eredità al genere umano dagli antichi yogi.

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Variazione di Sarvangasana – Urdhva Padmasana

Questa posizione elimina ogni ristagno di sangue venoso nelle gambe e negli organi addominali, previene la formazione di varici, migliora la digestione e pone rimedio alla stitichezza ed ai disturbi orinari; esercita inoltre una notevole stimolazione della tiroide – che risulta abbondantemente irrorata di sangue arterioso – del timo, dell’ipofisi e dell’ipotalamo, con l’effetto di correggerne eventuali alterazioni e regolarizzare il metabolismo corporeo.

Il viso ed il cervello ricevono un’abbondante ossigenazione contribuendo ad eliminare gli spasmi vascolari responsabili di svariate encefalopatie e di molti comuni mal di testa; la calma che deriva da questa postura aiuta ad attenuare stati di ansia ed insonnia.

Con una corretta esecuzione vengono temporaneamente annullati gli incurvamenti fisiologici della colonna vertebrale, correggendo in tal modo lievi difetti di statica generale e portando benefici in caso di ernia del disco.

Infine, la particolare postura e la pressione del mento sullo sterno impediscono la respirazione clavicolare e limitano quella toracica, favorendo dunque una respirazione diaframmatica; inoltre il peso dei visceri agevola l’espirazione e dona nuova elasticità al diaframma: Sarvângâsana ha dunque effetti positivi su alcune forme di asma, bronchiti e disturbi della gola.

Sarvângâsana, etimologia ed esoterismo

Sarvângâsana è comunemente conosciuta come la candela. Sebbene non sia menzionata nell’Hatha Yoga Pradipika, uno dei testi fondamentali nello yoga, questa è un’asana fra le più importanti in vari stili di yoga. Lascio quindi la parola ad uno dei pionieri dello yoga in Europa, Andrè Van Lysebeth, con una breve spiegazione riguardo all’etimologia del nome e qualche curiosità sulle sue implicazioni esoteriche 🙂
«Sarvâ in lingua sanscritas-sarvangasana-bks significa “tutto, tutti” e ângâ “membra, parti”.
Alcuni autori la traducono come “posizione per tutte le parti del corpo”. La traduzione potrebbe essere giustificata poiché Sarvângâsana agisce su tutto il corpo stimolando la tiroide, ma in questo caso anche molte altre asana meriterebbero questa definizione. Perché gli yogi avrebbero dunque favorito Sarvângâsana?
Diciamo con Alain Daniélou che Sarvângâsana è l’ellissi di sarvâângâuttàna-āsana (sarvâ= tutto, ângâ=membra, uttàna=alzato), dunque la traduzione letterale è “posizione in cui tutte le membra sono sollevate” e questo la rende diversa da tutte le altre posizioni.
[…] Questa asana deve i suoi principali effetti alla posizione capovolta del corpo, allo stiramento della nuca e alla stimolazione del ghiandola tiroide per la pressione che il mento esercita sullo sterno.
[…] Ora approfitteremo dell’occasione per parlare brevemente del suo aspetto esoterico. Gli orientali, compresi gli yogi, ammettono l’esistenza di correnti positive e negative (Yin e Yang dei cinesi), affermando che un flusso di energia cosmica discende dal cielo verso la terra. Quindi nella posizione in piedi l’uomo ne è attraversato verticalmente dall’alto in basso. Nelle posizioni capovolte questa energia scorre e agisce in senso opposto, ripristinando l’equilibrio nell’essere umano, l’unico a stazione eretta e che quindi è percorso in tutta la sua lunghezza dalle radiazioni cosmiche.
Questo spiega anche le raccomandazioni degli yogi sul mantenere la colonna vertebrale rigorosamente diritta e verticale durante il prāṇāyāma e la meditazione.
Che cosa pensare di queste “correnti”? Che cosa dice la scienza occidentale? Tutti i fisici, tutti i meteorologi, tutti gli scienziati sanno che la superficie terrestre (troposfera) ha una carica negativa e che l’alta atmosfera (litosfera) ha una carica positiva. La bassa atmosfera in cui viviamo è dunque compresa in un campo elettrostatico orientato approssimativamente dall’alto in basso, il cui gradiente di potenziale può raggiungere per ogni metro cubo 100-150 volt e oltre.
Se consideriamo che i fenomeni vitali, in particolare quelli legati all’attività nervosa e cerebrale, sono di natura elettrica e che gli elettroliti nelle cellule sono dei veri e propri operai della vita, possiamo ammettere che questa corrente esercita un’importante influenza su tutti gli stessi fenomeni vitali.
[…] Il dott. J. Belot ha scritto: “Quando consideriamo la vita alla luce della biofisica constatiamo sempre che i fenomeni elettrici sono alla base di qualsiasi vita cellulare. Dobbiamo quindi concludere che la vera essenza della vita è di natura elettrica”.
Questa conclusione giustifica ampiamente l’interpretazione esoterica degli effetti delle posizioni capovolte. I grandi Rishi (saggi) dell’antica India hanno percepito questi fenomeni sottili e le loro teorie hanno ricevuto una conferma dalle scoperte della scienza odierna.
Citiamo la spiegazione di Yesudian: “Questa āsana genera molti benefici a tutto l’organismo, a tal punto che ognuno dovrebbe praticarla diverse volte al giorno. I suoi effetti straordinariamente benefici provengono in parte da ciò che riceviamo come corrente contraria. È noto che la terra emette correnti negative, mentre lo spazio universale ci invia correnti positive. Nella posizione normale, retta, riceviamo correnti negative dai piedi e correnti positive dalla testa. Nelle posizioni capovolte avviene il contrario. La ragione del loro grande valore terapeutico risiede proprio nella posizione capovolta del corpo.”
Diciamo infine che Sarvângâsana procura quasi tutti i benefici della posizione capovolta sulla testa ed è una posizione assai più comoda.»
Tratto da:
Imparo lo Yoga, di Andrè Van Lysebeth

Niyama, il secondo ramo dell’Ashtanga Yoga

यमनियमासनप्राणायामप्रत्याहारधारणाध्यानसमाधयोऽष्टावङ्गानि॥२९॥
Yamaniyamāsanaprāṇāyāmapratyāhāradhāraṇādhyānasamādhayo’ṣṭāvaṅgāni||29||
Gli otto gradi dello Yoga sono: Yama – Niyama – Asana – Pranayama – Pratyahara – Dharana – Dhyana – Samadhi

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Ed eccoci al secondo ramo dell’Ashtanga Yoga, i Niyama.
Mentre gli yama sono principalmente focalizzati su comportamenti morali, universali e generali, che dovrebbero essere comuni a chiunque e non solo a uno yogi, con gli Niyama ci soffermiamo soprattutto sulla qualità della relazione che intratteniamo con noi stessi.

 

शौचसन्तोषतपःस्वाध्यायेश्वरप्रणिधानानिनियमाः॥३
Śaucasantoṣatapaḥsvādhyāyeśvarapraṇidhānāni niyamāḥ||32||
Niyama sono la purezza, la contentezza, l’austerità, lo studio e la conoscenza di sé, l’abbandono alla volontà divina

Il termine niyama può essere tradotto come dovere o osservanza.
La pratica di questo secondo ramo dell’Ashtanga Yoga ci aiuta a mimagesantenere un ambiente positivo nel quale crescere e ci dona quel giusto equilibrio tra autodisciplina e forza interiore necessario per progredire nello yoga.

I Niyama si suddividono in cinque filoni: Sauca, Samtosa, Tapas, Svadhyaya, Isvara Pranidhana

Potremmo dire che yama e niyama sono le cementa su cui si poggia l’ashtanga yoga. Essi creano una solida e forte base che permette agli yogi di muoversi sempre più profondamente con forza, concentrazione e quindi successo.  Praticare yama e niyama è un viaggio lungo e impegnativo. L’importante è non desistere e continuare nell’osservazione e nel lavoro su se stessi. Citando Swami Sri Kripalvanandaji said, “Quando raccogli un petalo dalla ghirlanda degli yama e niyama, l’intera ghirlanda seguirà”.

Quinto Yama, Aparigraha

अपरिग्रहस्थैर्ये जन्मकथंता संबोधः
aparigraha-sthairye janma-kathaṁtā saṁbodhaḥ II Sutra 39
“Allorché lo yogin è fermamente stabile nella non-possessività, sorge la conoscenza dei “come” e “perché” dell’esistenza

Si980xamo arrivati infine all’ultimo degli Yama, Aparigraha.
Esso viene abitualmente tradotto come assenza di avidità, ma il termine non possessività è molto più corretto.
Per non possesso non si deve intendere il mero possesso materiale, ma anche mentale e quindi infine anche spirituale. Quante volte ci rendiamo conto, magari dopo qualche ora (se ci va bene, più probabilmente dopo mesi o anni!), di aver perso tempo rincorrendo il nulla, attaccati a un pensiero, una sensazione che in ultima analisi non era altro che un falso desiderio, una percezione distorta, una sensazione che in verità non faceva neanche parte di noi?

Abbiamo tutti degli obiettivi, ma il tempo che si ha a disposizione viene spesso utilizzato  in maniera poco efficiente, per reagire mentalmente a fenomeni esterni al nostro vero sentire. Siano essi una persona che ci parla, uno schermo di computer che ci tempesta di informazioni, un evento nella strada accanto: qualsiasi cosa sposta la nostra attenzione dal nostro vero sentire all’oggetto posto in questione.
Essere capaci di eliminare il superfluo, l’inutile, tutto ciò che può deviare, rallentare, ostacolare, distrarre, fermare o inquinare la nostra vera via è Aparigraha.

A volte si tende a pensare che nel non volere di più, nell’accontentarsi ci sia una sorta di rassegnazione passiva e io stessa agli inizi lo pensavo e mi ribellavo a questa placida “rilassatezza” di alcuni insegnanti… anzi, mi dava proprio fastidio!
Ben lungi dall’essermi illuminata, per lo meno mi sono calmata uletgowithloven po’ e ora so che non si tratta di rassegnazione, né di passività nei confronti della vita. Al contrario, si tratta di vivere più intensamente e in una maniera più appagante.
Aparigraha non vuole censurare, né boicottare ciò che materialmente possediamo, ma eliminare gli attaccamenti e le dipendenze che ne possono derivare, rendendoci infine più liberi e ricchi, consci di ciò che abbiamo.

Imparando ad “accogliere e accettare” ciò che arriva per come è infatti, senza ricamarci sopra, ci si può accorgere che forse abbiamo già molto più di quanto credessimo, sia a livello materiale che a livello più sottile. Ci rendiamo conto anche che la perdita è un fatto della vita, così come il cambiamento. E guardando a questi fatti col dovuto distacco, potremmo persino notare che è proprio quel distacco che ci permette di sentirci maggiormente in comunione col tutto, a disperderci di meno e a non limitare il nostro amore e le nostre emozioni. Si tratta in qualche modo di un risparmio energetico, che accresce la nostra empatia senza sciuparci. E quando siamo radicati nel godere di ciò che già abbiamo e siamo, allora Patanjali dice, “sorge la conoscenza”.

Quarto Yama, Brahmacharya

ब्रह्मचर्य प्रतिष्ठायां वीर्यलाभः ॥३८॥
brahma-charya pratishthayam virya-labhah ||38||
Quando si è
fermamente stabiliti in Brahmacharya si ottiene vigore (Yoga Sutra)

Brahmacharya è il quarto e quindi penultimo fra gli yama, di cui ho già scritto una breve introduzione qui.
“Brahma” è il Dio delguru-yogila creazione, il termine con cui viene descritto significa letteralmente illimitata immensità, da considerarsi come unica e indivisibile; mentre “charya” può essere inteso come andare verso.
Nell’induismo, Brahmacharya si riferisce al primo dei quattro ashrama, gli stadi della vita descritti negli antichi testi. Il sistema degli ashrama divide la vita umana in quattro livelli, ad ognuno dei quali il sādhaka, il praticante,  ottiene un certo sviluppo.

I primi 24 anni di vita sono segnati dal periodo del brahmacharya, dove il sādhaka apprende dal guru e impara il controllo dei sensi; fra i 25 e i 49 anni  abbiamo l’epoca del grihastha, dove il praticante forma la sua famiglia e cresce i figli; fra i 50 e i 74 anni c’è il periodo del vanaprastha, quando si condivide la propria conoscenza con gli altri e ci si prepara ad allontanarsi dal mondo materiale; dai 75 anni in su infine è l’epoca del sannyāsa, spesso tradotto come “rinunciatario”. Questo è lo stadio finale della vita, in cui si rinuncia ai beni materiali e ci si dedica interamente al proprio cammino spirituale.

Brahmacharya quindi rappresenta il primo stadio della vita. Questo è un periodo di apprendimento e include la pratica del celibato. In questo senso il termine connota la castità, virtù che aiuta il giovane a indirizzare tutte le sue energie verso lo studio sotto la guida di un valido guru.
Molto spesso Brahmacharya viene quindi spiegatguru_discipleo come astinenza sessuale tout court, ma descritto così riduciamo di moltissimo il suo senso più profondo.
Anche se l’astinenza sessuale è un aspetto maggioritario del brahmacharya, ne è comunque solamente una parte, sebbene certamente una delle più difficili da controllare.
Brahmacharya è soprattutto un atteggiamento mentale nei confronti degli aspetti sensuali ed implica vivere in maniera sobria, con autocontrollo e moderazione nei pensieri, nelle parole, nelle azioni. Significa essere padroni dei propri sensi, essere capaci di tenere ben salda la mente in un atteggiamento di distacco consapevole dagli oggetti, dalle persone, dalle circostanze sia favorevoli che contrarie, dai nostri stessi pensieri.

Spesso purtroppo la gente, nella697 ricerca di una pratica più sostenuta, si costringe nel celibato senza esserne convinta, senza sentirsi veramente a suo agio e soprattutto creando un atteggiamento di rigidità verso tutti gli aspetti della vita. La stessa cosa possiamo vederla negli asana, le posture. Tanta gente si ostina, malgrado il dolore fisico e un corpo stanco che vuole riposare. Allora invece di imparare dallo yoga ad ascoltare il nostro corpo ed in ultimo a conoscere maggiormente noi stessi, non facciamo altro che limitarci ulteriormente, ostinarci in qualcosa che ci pare sia giusto, una formulina matematica creata da qualcun altro che non si sposa con noi o che non sappiamo fare nostra.

Il fine ultimo degli yama e niyama non è quello di imporre un sistema etico e morale che renda la vita tediosa e la mente rigida, ma quello di affievolire il potere delle nostre passioni in modo da canalizzare l’energia verso una coscienza superiore.
Solo a quel punto yama e niyama si trasformeranno da una forma di pratica in una realizzazione che ci porterà verso la libertà e la gioia.

Primo Yama, Ahiṃsā

अहिंसाप्रतिष्ठायां तत्सन्निधौ वैरत्यागः॥३५॥
Ahiṁsāpratiṣṭhāyāṁ tatsannidhau vairatyāgaḥ||35||
Allorché lo yogin è  radicato nella non- violenza, coloro che sono in sua  presenza cessano ogni ostilità

Ahiṃsā significa letteralmente assenza del desiderio di uccidere. Questo aspetto dello yoga è stato praticato e reso famoso dal Mahatma Gandhi, quando indusse la popolazione indiana a liberarsi dalla dominazione britannica in maniera pacifica.mahatma

Gli Yoga Sutra descrivono Ahiṃsā in questo modo: «Quando si è fermamente stabiliti nella non-violenza, vi è abbandono dell’ostilità» (2.35). In sanscrito: “Ahiṃsā –pratishthayam tat-sannidhau vaira-tyagah“, che letteralmente significa “Quando la non violenza è stabilizzata, nelle vicinanze di essa, le tendenze ostili sono eliminate.“

Ahiṃsā non è semplicemente non fare del male agli altri, a noi stessi o all’ambiente, non è un principio passivo, ma è sviluppare empatia verso ogni essere vivente, una eliminazione totale del seme della violenza che è latente in noi. Lo stesso termine non violenza andrebbe poi esaminato, poiché le sfumature sono tante e molto sottili. La stessa indifferenza può essere, ad esempio, una forma di violenza se vogliamo essere onesti.

Ma ovviamente la vera nononviolence-banksy-graffitin-violenza deve essere innanzitutto praticata verso il proprio intero essere (corpo, mente e spirito), diventando colmi di amore profondo per tutte le differenti manifestazioni della vita. La non-violenza infatti sviluppa in noi qualità sublimi come il perdono, il controllo degli istinti aggressivi, l’umiltà, l’amore incondizionato. Solo allora saranno cacciate le tendenze ostili e anche ciò che ci sta intorno risuonerà di questo stato di ahiṃsā.

Questo principio è anche spiegato dalla fisica quantistica: ogni corpo vibra e le sue vibrazioni attirano, agganciano e si uniscono a quelle che incontra sulla sua stessa frequenza d’onda scartando le altre. È la legge di risonanza, anche nota come Legge di Attrazione: tutto nell’Universo vibra continuamente e le vibrazioni che si trovano sulla medesima frequenza si attirano, entrano in contatto proprio perché simili, dando vita a nuova energia.