Terzo Yama, Asteya

अस्तेयप्रतिष्ठायां सर्वरत्नोपस्थानम्॥३७॥
Asteyapratiṣṭhāyāṁ sarvaratnopasthānam||37||
“Quando asteya è radicato nella persona, tutti i gioielli ed i tesori si presentano allo Yogi

Il terzo yama, asteyaAsteya, viene spesso tradotto come non rubare e può essere interpretato in maniera semplicistica come non appropriarsi di ciò che non è nostro. Il senso di questo yama però è molto più articolato e profondo e concerne il concetto di non attaccamento.
Il non attaccamento ci permette sia di non vantarci per una buona azione compiuta, sia di non aspettarci nulla dalle situazioni che si presentano nella nostra vita. È una condizione di equanimità e di sano distacco. Quando le persone o le cose diventano oggetto del nostro desiderio infatti, sviluppiamo aspettative e senso di attaccamento, sottomettendole alla nostra ottica duale di giusto/sbagliato. Ergiamo noi stessi a giudici, ponendo delle etichette alla persona o all’oggetto in questione e finiamo per non accettare più l’essere umano di fronte a noi per ciò che è, ma in quanto “nostro”, fissandogli il ruolo che abbiamo scelto per  lui (il mio compagno, mia madre, mio figlio…).
Così facendo carichiamo di aspettative la persona in base a ciò che per noi è giusto, smettendo di essere grati per l’incontro e per i possibili nuovi orizzonti che la situazione ci può indicare. Di conseguenza sorgono le frustrazioni, le aspettative ed il desiderio di cambiare ciò che non ci piace in chi abbiamo di fronte. Inoltre, agendo in questa maniera carichiamo noi stessi di aspettative e non appena ci discostiamo dal nostro ideale iniziamo a non accettarci più.

Asteya quindi potrebbe anche essere inteso come una sospensione del giudizio. Imparando ad amare, apprezzare, condividere senza alcuna aspettativa, senza istinto di possesso, riusciamo a godere in pieno della bellezza senza rimorsi, vivendola in maniera completa e armonica.
Tornando al significato del sutra quindi, rafforzando il senso morale attraverso l’osservazione dei nostri pensieri, sentimenti, emozioni, evitando di macchiare la coscienza anche con le forme più sottili di appropriazione indebita, otteniamo la chiave di svolta per la trasformazione, e allora

«tutti i gioielli ed i tesori si presentano allo Yogi»

Qualche tempo fa ho scritto un articolo sul concetto di anicca, che proponeva la stessa tematica.bharata
Questa volta racconterò un altro pezzo tratto dal Ramayana, la saga dell’esilio e delle avventure di Rama, che ben si addice al concetto di Asteya.

La storia del Ramayana inizia proprio con questo fatto: la regina Kaikeyi, alla quale è stato concesso dal marito di esprimere due desideri, chiede che Rama, figlio di una precedente moglie del re e designato come successore dal padre, non venga nominato reggente e che al suo posto venga insignito del titolo suo figlio Bharata. Onde evitare possibili problemi Kaikeyi esprime come secondo desiderio che Rama venga mandato in esilio per 14 anni. Il re non può negare queste richieste alla moglie, che un tempo gli aveva salvato la vita, e col cuore spezzato accetta di mandare l’amato Rama in esilio, morendo poco dopo per la tristezza.
Bharata, scoperta l’ingiusta richiesta della madre, rifiuta di occupare il trono e chiede a Rama di tornare ma questi, rispettando le ultime parole del padre, decide di continuare il suo esilio.  Accetta però la richiesta di Bharata di lasciargli i suoi sandali, che vengono posti sul trono sul quale il giovano fratellastro non si siederà mai, per enfatizzare il legame e il rispetto che porta a Rama. Bharata attenderà 14 anni il ritorno di Rama dall’esilio forzato, governando da un eremo con umiltà, buon senso e senza farsi notare.