Quinto Yama, Aparigraha

अपरिग्रहस्थैर्ये जन्मकथंता संबोधः
aparigraha-sthairye janma-kathaṁtā saṁbodhaḥ II Sutra 39
“Allorché lo yogin è fermamente stabile nella non-possessività, sorge la conoscenza dei “come” e “perché” dell’esistenza

Si980xamo arrivati infine all’ultimo degli Yama, Aparigraha.
Esso viene abitualmente tradotto come assenza di avidità, ma il termine non possessività è molto più corretto.
Per non possesso non si deve intendere il mero possesso materiale, ma anche mentale e quindi infine anche spirituale. Quante volte ci rendiamo conto, magari dopo qualche ora (se ci va bene, più probabilmente dopo mesi o anni!), di aver perso tempo rincorrendo il nulla, attaccati a un pensiero, una sensazione che in ultima analisi non era altro che un falso desiderio, una percezione distorta, una sensazione che in verità non faceva neanche parte di noi?

Abbiamo tutti degli obiettivi, ma il tempo che si ha a disposizione viene spesso utilizzato  in maniera poco efficiente, per reagire mentalmente a fenomeni esterni al nostro vero sentire. Siano essi una persona che ci parla, uno schermo di computer che ci tempesta di informazioni, un evento nella strada accanto: qualsiasi cosa sposta la nostra attenzione dal nostro vero sentire all’oggetto posto in questione.
Essere capaci di eliminare il superfluo, l’inutile, tutto ciò che può deviare, rallentare, ostacolare, distrarre, fermare o inquinare la nostra vera via è Aparigraha.

A volte si tende a pensare che nel non volere di più, nell’accontentarsi ci sia una sorta di rassegnazione passiva e io stessa agli inizi lo pensavo e mi ribellavo a questa placida “rilassatezza” di alcuni insegnanti… anzi, mi dava proprio fastidio!
Ben lungi dall’essermi illuminata, per lo meno mi sono calmata uletgowithloven po’ e ora so che non si tratta di rassegnazione, né di passività nei confronti della vita. Al contrario, si tratta di vivere più intensamente e in una maniera più appagante.
Aparigraha non vuole censurare, né boicottare ciò che materialmente possediamo, ma eliminare gli attaccamenti e le dipendenze che ne possono derivare, rendendoci infine più liberi e ricchi, consci di ciò che abbiamo.

Imparando ad “accogliere e accettare” ciò che arriva per come è infatti, senza ricamarci sopra, ci si può accorgere che forse abbiamo già molto più di quanto credessimo, sia a livello materiale che a livello più sottile. Ci rendiamo conto anche che la perdita è un fatto della vita, così come il cambiamento. E guardando a questi fatti col dovuto distacco, potremmo persino notare che è proprio quel distacco che ci permette di sentirci maggiormente in comunione col tutto, a disperderci di meno e a non limitare il nostro amore e le nostre emozioni. Si tratta in qualche modo di un risparmio energetico, che accresce la nostra empatia senza sciuparci. E quando siamo radicati nel godere di ciò che già abbiamo e siamo, allora Patanjali dice, “sorge la conoscenza”.

Quarto Yama, Brahmacharya

ब्रह्मचर्य प्रतिष्ठायां वीर्यलाभः ॥३८॥
brahma-charya pratishthayam virya-labhah ||38||
Quando si è
fermamente stabiliti in Brahmacharya si ottiene vigore (Yoga Sutra)

Brahmacharya è il quarto e quindi penultimo fra gli yama, di cui ho già scritto una breve introduzione qui.
“Brahma” è il Dio delguru-yogila creazione, il termine con cui viene descritto significa letteralmente illimitata immensità, da considerarsi come unica e indivisibile; mentre “charya” può essere inteso come andare verso.
Nell’induismo, Brahmacharya si riferisce al primo dei quattro ashrama, gli stadi della vita descritti negli antichi testi. Il sistema degli ashrama divide la vita umana in quattro livelli, ad ognuno dei quali il sādhaka, il praticante,  ottiene un certo sviluppo.

I primi 24 anni di vita sono segnati dal periodo del brahmacharya, dove il sādhaka apprende dal guru e impara il controllo dei sensi; fra i 25 e i 49 anni  abbiamo l’epoca del grihastha, dove il praticante forma la sua famiglia e cresce i figli; fra i 50 e i 74 anni c’è il periodo del vanaprastha, quando si condivide la propria conoscenza con gli altri e ci si prepara ad allontanarsi dal mondo materiale; dai 75 anni in su infine è l’epoca del sannyāsa, spesso tradotto come “rinunciatario”. Questo è lo stadio finale della vita, in cui si rinuncia ai beni materiali e ci si dedica interamente al proprio cammino spirituale.

Brahmacharya quindi rappresenta il primo stadio della vita. Questo è un periodo di apprendimento e include la pratica del celibato. In questo senso il termine connota la castità, virtù che aiuta il giovane a indirizzare tutte le sue energie verso lo studio sotto la guida di un valido guru.
Molto spesso Brahmacharya viene quindi spiegatguru_discipleo come astinenza sessuale tout court, ma descritto così riduciamo di moltissimo il suo senso più profondo.
Anche se l’astinenza sessuale è un aspetto maggioritario del brahmacharya, ne è comunque solamente una parte, sebbene certamente una delle più difficili da controllare.
Brahmacharya è soprattutto un atteggiamento mentale nei confronti degli aspetti sensuali ed implica vivere in maniera sobria, con autocontrollo e moderazione nei pensieri, nelle parole, nelle azioni. Significa essere padroni dei propri sensi, essere capaci di tenere ben salda la mente in un atteggiamento di distacco consapevole dagli oggetti, dalle persone, dalle circostanze sia favorevoli che contrarie, dai nostri stessi pensieri.

Spesso purtroppo la gente, nella697 ricerca di una pratica più sostenuta, si costringe nel celibato senza esserne convinta, senza sentirsi veramente a suo agio e soprattutto creando un atteggiamento di rigidità verso tutti gli aspetti della vita. La stessa cosa possiamo vederla negli asana, le posture. Tanta gente si ostina, malgrado il dolore fisico e un corpo stanco che vuole riposare. Allora invece di imparare dallo yoga ad ascoltare il nostro corpo ed in ultimo a conoscere maggiormente noi stessi, non facciamo altro che limitarci ulteriormente, ostinarci in qualcosa che ci pare sia giusto, una formulina matematica creata da qualcun altro che non si sposa con noi o che non sappiamo fare nostra.

Il fine ultimo degli yama e niyama non è quello di imporre un sistema etico e morale che renda la vita tediosa e la mente rigida, ma quello di affievolire il potere delle nostre passioni in modo da canalizzare l’energia verso una coscienza superiore.
Solo a quel punto yama e niyama si trasformeranno da una forma di pratica in una realizzazione che ci porterà verso la libertà e la gioia.

Primo Yama, Ahiṃsā

अहिंसाप्रतिष्ठायां तत्सन्निधौ वैरत्यागः॥३५॥
Ahiṁsāpratiṣṭhāyāṁ tatsannidhau vairatyāgaḥ||35||
Allorché lo yogin è  radicato nella non- violenza, coloro che sono in sua  presenza cessano ogni ostilità

Ahiṃsā significa letteralmente assenza del desiderio di uccidere. Questo aspetto dello yoga è stato praticato e reso famoso dal Mahatma Gandhi, quando indusse la popolazione indiana a liberarsi dalla dominazione britannica in maniera pacifica.mahatma

Gli Yoga Sutra descrivono Ahiṃsā in questo modo: «Quando si è fermamente stabiliti nella non-violenza, vi è abbandono dell’ostilità» (2.35). In sanscrito: “Ahiṃsā –pratishthayam tat-sannidhau vaira-tyagah“, che letteralmente significa “Quando la non violenza è stabilizzata, nelle vicinanze di essa, le tendenze ostili sono eliminate.“

Ahiṃsā non è semplicemente non fare del male agli altri, a noi stessi o all’ambiente, non è un principio passivo, ma è sviluppare empatia verso ogni essere vivente, una eliminazione totale del seme della violenza che è latente in noi. Lo stesso termine non violenza andrebbe poi esaminato, poiché le sfumature sono tante e molto sottili. La stessa indifferenza può essere, ad esempio, una forma di violenza se vogliamo essere onesti.

Ma ovviamente la vera nononviolence-banksy-graffitin-violenza deve essere innanzitutto praticata verso il proprio intero essere (corpo, mente e spirito), diventando colmi di amore profondo per tutte le differenti manifestazioni della vita. La non-violenza infatti sviluppa in noi qualità sublimi come il perdono, il controllo degli istinti aggressivi, l’umiltà, l’amore incondizionato. Solo allora saranno cacciate le tendenze ostili e anche ciò che ci sta intorno risuonerà di questo stato di ahiṃsā.

Questo principio è anche spiegato dalla fisica quantistica: ogni corpo vibra e le sue vibrazioni attirano, agganciano e si uniscono a quelle che incontra sulla sua stessa frequenza d’onda scartando le altre. È la legge di risonanza, anche nota come Legge di Attrazione: tutto nell’Universo vibra continuamente e le vibrazioni che si trovano sulla medesima frequenza si attirano, entrano in contatto proprio perché simili, dando vita a nuova energia.

La Nascita di Patañjali

vishnu
Visnu riposa sul Signore dei serpenti Adisesa

Patañjali è l’autore degli yoga sutra, uno dei testi di riferimento su questa scienza. Lo yoga è nato prima di lui, ma lui in qualche maniera lui ne è stato lo scopritore e fondatore. Sulla sua nascita e vita paradossalmente si sa pochissimo.

Secondo la leggenda, un giorno Viṣṇu, custode e protettore della creazione, stava seduto su Ādiśeṣa, signore dei serpenti e suo trasportatore.
Viṣṇu stava guardando l’affascinante danza di Śiva e ne rimase talmente scosso che il suo corpo iniziò a vibrare e a martellare pesantemente su Ādiśeṣa, al quale quasi mancò il respiro. Quando la danza terminò, subito il corpo di Viṣṇu tornò leggero.

Ādiśeṣa chiese a Visnu cosa fosse successo e questi rispose che la grazia, la bellezza e la potenza della danza di Śiva avevano creato delle corrispondenti vibrazioni sul suo corpo.
Incantato da questa esperienza vissuta, Ādiśeṣa espresse il desidero di poter imparare la danza in modo da poterla ballare per la gioia di Viṣṇu.

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Siva danzante

Colpito dalla richiesta, Viṣṇu predisse che Śiva, per la devozione e compassione mostrata da Ādiśeṣa, lo avrebbe fatto incarnare in un essere umano cosicché egli potesse offrire gioia all’umanità e soddisfare il suo desiderio di danzare.
Colmo di gioia per queste parole, Ādiśeṣa si chiese chi sarebbe diventata la madre che lo avrebbe accolto sulla terra.

Un giorno, mentre meditava, il Signore dei serpenti ebbe la visione di una devota yogini chiamata Gonika, un’asceta i cui giorni sulla terra erano già in gran parte trascorsi senza che essa avesse trovato un pupillo cui trasmettere tutte le sue conoscenze sullo yoga. Proprio in quel momento la devota si stava prostrando di fronte al Sole ad occhi chiusi, con le mani unite a coppa che racchiudevano della semplice acqua come offerta, implorandolo di benedirla con un figlio prima che il suo tempo finisse.

Ādiśeṣa comprese che quella sarebbe spatanjalitata la madre perfetta.

Proprio quando la donna, riaperti gli occhi, stava per offrire l’acqua al Sole, notò che fra le sue mani c’era un piccolo serpente che vi nuotava e che subito si trasformò in essere umano. Il piccolo umano si chinò davanti alla yogini e le chiese di accettarlo come figlio.
Gonika accettò e lo chiamò Patañjali.

Il nome Patañjali significa caduto sulle mani giunte in preghiera, dove “Pata“significa caduto, mentre “Añjali” offerta, ma anche mani giunte in preghiera.

La storia dietro Virabhadrasana I, II e III

virabhadra

Virabhadrasana è la posizione del guerriero, della quale abbiamo tre versioni. È molto difficile andare a una classe di yoga senza eseguire almeno una di queste tre varianti. Da me in questo periodo stiamo lavorando in particolare su Virabhadrasana I e III.

Vira significa eroe, mentre Bhadra significa amico. La storia dietro Virabhadra non è propriamente quella che ci si immagina quando si sta sopra il tappetino, c’è molta collera, violenza, orgoglio.

La storia comincia con il matrimonio fra il Dio Shiva e sua moglie Shakti. Secondo i testi antichi il padre di Shakti, il potente re Daksha, non approvava la loro unione. Shiva era descritto come un dio non convenzionale, portava lunghi rasta e amava meditare nei cimiteri, coperto dalle ceneri dei morti. Era inoltre solitario e preferiva meditare in cima alle montagne piuttosto che avere a che fare con la società. Infine, oltre a consumare droghe e danzare per puro piacere, l’anticonvenzionale Dio portava sempre con sé un teschio (si dice che questa era una maledizione gettata dal Dio Brahma come vendetta poiché Shiva gli aveva tagliato una delle sue cinque teste).
In poche parole, Shiva era l’antitesi del re Daksha che invece cercava di preservare le regole della società tradizionale.

Dopo che si furono sposati, Shakti lasciò la famiglia per andare a vivere col suo sposo sul Monte Kailash. Infuriato per questa unione, il padre decise di organizzare un grande evento, un rituale di sacrificio conosciuto come Yagna, al quale invitò tutte le creature divine ad eccezione di sua figlia e del suo sposo.
Shakti, addolorata dall’affronto del padre, decise di andare da sola alla festa e di affrontare di petto il padre, mentre Shiva sarebbe rimasto sul monte assorto in meditazione.
Arrivata allo Yagna però, il padre si rifiutò addirittura di parlarle e quando finalmente lo fece fu solo per ridicolizzare la coppia davanti a tutti, commentando che la figlia si era sposata col “Dio delle Bestie”.

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Shakti, profondamente umiliata, esclamò

“Visto che tu mi hai donato questo corpo, io non voglio più essere associata a questo”

Detto questo, Shakti si sedette, entrò in uno stato di trance e iniziò ad aumentare il suo fuoco interno fino a quando non bruciò completamente.

Shiva presto venne a sapere della morte violenta della sua amata. Dopo le lacrime subentrò una violenta ira, si strappò gli abiti e persino i rasta uno a uno dalla testa. Secondo la leggenda Virabhadra nacque da uno dei rasta che Shiva scagliò con violenza sulla terra.
Virabhadra poi venne diretto da Shiva alla festa del Re Daksha con lo scopo di uccidere tutti, decapitare il re e berne il suo sangue.

È qui che troviamo il collegamento tra la tragica storia d’amore e vendetta e le posture che noi eseguiamo durante la pratica oggigiorno.

Secondo i testi antichi, Virabhadra entrò allo Yagna dal sottosuolo, spingendosi verso la luce con le sue due spada sopra la sua testa – figura che ci collega a Virabhadrasana I

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Dopodiché, Virabhadra si mostrò agli invitati con le spade sguainate, pronto a colpire. Virabhadrasana II rappresenta questo momento, con la vittima davanti agli occhi _ il dito medio della mano davanti indicando il bersaglio, mentre la mano dietro regge l’altra spada

 Virabhadrasana II

Infine, Virabhadra alzò la spada in aria e, come indicato da Shiva, con velocità e precisione tagliò la testa del re Daksha. Questa scena è evidenziata in Virabhadrasana III

 

A questo punto dakshaShiva arrivò  allo Yagna e riassorbì Virabhadra dentro sé stesso. Vedendo la morte e la distruzione davanti a sé, il Dio non riuscì più a provare ira ma piuttosto profondo sconforto e dolore. Così, spinto dalla compassione verso il suocero, cercò il corpo di Daksha e gli diede una nuova testa, ma non una umana, bensì quella di una capra, per poi riportarlo in vita. Questi, immediatamente, si chinò verso di lui e lo chiamò “il buono e caritatevole”.
Shiva poi prese i resti del corpo della moglie e tornò alla sua vita solitaria.

Virabhadrasana certamente non ricorda a primo acchito il principio del primo yama, ahimsa. Questa serie di asana però, se eseguite con la consapevolezza apportata dal mito, può ricordarci  che sì, è importante agire davanti alle ingiustizie dirette verso di noi o gli altri, ma anche che ogni singola nostra azione porterà delle conseguenze e che quindi i nostri gesti non devono essere ciechi…

… Anche perché ahimè non possiamo ridare la vita ai morti come faceva Shiva 🙂

Terzo Yama, Asteya

अस्तेयप्रतिष्ठायां सर्वरत्नोपस्थानम्॥३७॥
Asteyapratiṣṭhāyāṁ sarvaratnopasthānam||37||
“Quando asteya è radicato nella persona, tutti i gioielli ed i tesori si presentano allo Yogi

Il terzo yama, asteyaAsteya, viene spesso tradotto come non rubare e può essere interpretato in maniera semplicistica come non appropriarsi di ciò che non è nostro. Il senso di questo yama però è molto più articolato e profondo e concerne il concetto di non attaccamento.
Il non attaccamento ci permette sia di non vantarci per una buona azione compiuta, sia di non aspettarci nulla dalle situazioni che si presentano nella nostra vita. È una condizione di equanimità e di sano distacco. Quando le persone o le cose diventano oggetto del nostro desiderio infatti, sviluppiamo aspettative e senso di attaccamento, sottomettendole alla nostra ottica duale di giusto/sbagliato. Ergiamo noi stessi a giudici, ponendo delle etichette alla persona o all’oggetto in questione e finiamo per non accettare più l’essere umano di fronte a noi per ciò che è, ma in quanto “nostro”, fissandogli il ruolo che abbiamo scelto per  lui (il mio compagno, mia madre, mio figlio…).
Così facendo carichiamo di aspettative la persona in base a ciò che per noi è giusto, smettendo di essere grati per l’incontro e per i possibili nuovi orizzonti che la situazione ci può indicare. Di conseguenza sorgono le frustrazioni, le aspettative ed il desiderio di cambiare ciò che non ci piace in chi abbiamo di fronte. Inoltre, agendo in questa maniera carichiamo noi stessi di aspettative e non appena ci discostiamo dal nostro ideale iniziamo a non accettarci più.

Asteya quindi potrebbe anche essere inteso come una sospensione del giudizio. Imparando ad amare, apprezzare, condividere senza alcuna aspettativa, senza istinto di possesso, riusciamo a godere in pieno della bellezza senza rimorsi, vivendola in maniera completa e armonica.
Tornando al significato del sutra quindi, rafforzando il senso morale attraverso l’osservazione dei nostri pensieri, sentimenti, emozioni, evitando di macchiare la coscienza anche con le forme più sottili di appropriazione indebita, otteniamo la chiave di svolta per la trasformazione, e allora

«tutti i gioielli ed i tesori si presentano allo Yogi»

Qualche tempo fa ho scritto un articolo sul concetto di anicca, che proponeva la stessa tematica.bharata
Questa volta racconterò un altro pezzo tratto dal Ramayana, la saga dell’esilio e delle avventure di Rama, che ben si addice al concetto di Asteya.

La storia del Ramayana inizia proprio con questo fatto: la regina Kaikeyi, alla quale è stato concesso dal marito di esprimere due desideri, chiede che Rama, figlio di una precedente moglie del re e designato come successore dal padre, non venga nominato reggente e che al suo posto venga insignito del titolo suo figlio Bharata. Onde evitare possibili problemi Kaikeyi esprime come secondo desiderio che Rama venga mandato in esilio per 14 anni. Il re non può negare queste richieste alla moglie, che un tempo gli aveva salvato la vita, e col cuore spezzato accetta di mandare l’amato Rama in esilio, morendo poco dopo per la tristezza.
Bharata, scoperta l’ingiusta richiesta della madre, rifiuta di occupare il trono e chiede a Rama di tornare ma questi, rispettando le ultime parole del padre, decide di continuare il suo esilio.  Accetta però la richiesta di Bharata di lasciargli i suoi sandali, che vengono posti sul trono sul quale il giovano fratellastro non si siederà mai, per enfatizzare il legame e il rispetto che porta a Rama. Bharata attenderà 14 anni il ritorno di Rama dall’esilio forzato, governando da un eremo con umiltà, buon senso e senza farsi notare.

Utkatasana, Posizione Potente

utkatasanaUtkatasana è una posizione in “crisi d’identità”. Infatti le viene spessissimo attribuita come traduzione “posizione della sedia”. Questo nome però non le rende a pieno giustizia, considerando che utkata letteralmente significa potente, orgoglioso, fiero, superiore, ma anche alto, immenso, difficile.
Eppure, partendo proprio dalla sedia, possiamo ricollegarci al mito che sta dietro questa postura.
Storicamente, si sa, le sedie in India non erano molto usate. La maggior parte della gente sedeva per terra, mentre i reali sedevano su troni che li sollevavano dal livello comune e gli donavano maggiore visibilità.

Il Ramayana, la saga dell’esilio e delle avventure di Rama è, in un certo senso,una storia che ruota intorno a varie sedie o troni, come si preferisce chiamarle.
Non mi dilungherò a fare un sunto del lunghissimo poema, del quale scriverò nuovamente presto. Per oggi mi focalizzerò sull’incontro di Hanuman col re Ravana. Hanuman è un vanara, spirito dall’aspetto di scimmia, importantissima figura che aiuta Rama, avatar di Viṣṇu, a liberare la sua consorte Sita dal re Ravana.

Raggiungendo la corte di Ravana, Hanuman richiede di essere fatto sedere shanuman-tail-seatu di una sedia, per mostrare la sua posizione di messaggero di Rama. Ravana, furioso, rifiuta di offrire una sedia all’emissario reale. Hanuman rimane imperturbabile e inizia ad allungare la sua coda, facendola girare in piccoli cerchi sotto di sé per sedercisi sopra. Così facendo il trono di Ravana risulta più basso, cosa che irrita il re. Questi allora esorta i soldati a poggiare il trono su di una base più alta, in modo da riguadagnare la sua posizione di prestigio, ma la soluzione non è che temporanea, poiché Hanuman continua col suo gioco allungando ulteriormente la coda e continuando a chiedere nel frattempo la liberazione di Sita, molanka-dahhanglie di Rama.

Ravana, sempre più furioso, ordina di uccidere Hanuman, ma gli viene ricordato che i messaggeri non possono mai essere condannati a morte, poiché sarebbe contro le regole della condotta reale. Il re può però punire Hanuman per la sua sfrontatezza e così ordina che questi venga esposto in strada con la lunga coda messa al fuoco. Ma il nostro eroe ha vari poteri, fra cui quello dell’immunità dal fuoco e così rimane illeso, salva Sita e mette a fuoco la città di Lanka saltando da un tetto all’altro con la sua coda infuocata.

L’incontro fra Hanuman e Ravana è illustrato attraverso Utkatasana ed è con questo spirito di imponenza che dobbiamo immaginarla e sentirla quando la eseguiamo.

Secondo Yama, Satya

सत्यप्रतिष्ठायां क्रियाफलाश्रयत्वम्॥३६॥
Satyapratiṣṭhāyāṁ kriyāphalāśrayatvam||36||
Quando la verità è radicata in lui,  egli consegue i frutti dell’azione senza agire

Satya è il secondo ramo degli Yama e significa onesto, sincero o virtuoso.

satyaSatya è un comportamento di verità, una qualità per mantenersi veri nelle parole, nei comportamenti, nei pensieri, ma è anche un modo di perseguire la verità anche all’esterno di noi stessi. Nell’ordinario può capitare di usare parole negative senza farci caso, ma quando si pratica yoga l’attenzione viene portata con sempre maggiore frequenza all’uso corretto di ogni termine o frase.

Infatti, anche se le parole non lasciano delle ferite fisiche, se ne abusiamo sono in grado di produrre seri danni emotivi, così profondi che la psicologia considera l’abuso verbale tanto pericoloso quanto qualsiasi altra forma di maltrattamento, come quello fisico o sessuale. Per questo prima di pronunciare delle parole, quando queste sono ancora soltanto pensieri, è bene capire che facciamo ancora in tempo ad evitare che quella critica, giudizio o negatività esca da noi, trasformandosi in una freccia velenosa.

La parola è soloim-possible l’espressione del pensiero e del relativo comportamento. Partendo perciò dall’aspetto più visibile possiamo purificare anche la causa meno visibile e perciò più sfuggente, quale il pensiero. In generale infatti quando usiamo parole cattive, offensive, ingiuste verso gli altri, prima di tutto stiamo autosabotando noi stessi, mossi principalmente dalla paura.

Bruce Lipton nei suoi libri, (che straconsiglio!), punta molto su questo, spiegando quanto sia stato importante per lui creare l’abitudine della presenza mentale, divenendo consapevole dei suoi pensieri. Come sostiene ne The Honeymoon Effect, “l’obiettivo della presenza mentale è di far sì che ogni azione e decisione derivi dalle proprie aspirazioni e desideri, vale a dire dalla mente conscia, e non dal pilota automatico, la mente subconscia.

Nel 2010 i ricercatori dell’Università di Harvard hanno scoperto che le persone trascorrono quasi la metà delle ore di veglia pensando a qualcosa di diverso da quello che stanno facendo e che questa distrazione li rende infelici (anche quando la loro mente vaga verso soggetti piacevoli). Gli autori hanno scritto: “In conclusione, una mente umana è una mente distratta e una mente distratta è una mente infelice. la capacitwordsà di pensare a quello che non sta accadendo è una realizzazione cognitiva che arriva ad un costo emozionale”. L’infelicità della distrazione, naturalmente, è esacerbata dal fatto che spesso, mentre la nostra mente vaga, i nostri programmi subconsci stanno sabotando i desideri della nostra vita!

Se riusciamo a comprendere che ognuno di noi può attingere ad una sua spiritualità interiore, che può scoprire il sacro nel suo quotidiano, cioè quel qualcosa fatto di verità che il pensiero e le sue false parole non possono toccare e men che meno contaminare, ci troveremo così in una dimensione dove Satya emergerà in modo facile e spontaneo. Satya allora porterà parole vere, sane, costruttive e con esse i relativi pensieri e comportamenti che aiuterebbero l’essere umano nel suo percorso verso la bellezza.

Yama, il primo ramo dell’Ashtanga Yoga

यमनियमासनप्राणायामप्रत्याहारधारणाध्यानसमाधयोऽष्टावङ्गानि॥२९॥
Yamaniyamāsanaprāṇāyāmapratyāhāradhāraṇādhyānasamādhayo’ṣṭāvaṅgāni||29||
Gli otto gradi dello Yoga sono: Yama – Niyama – Asana – Pranayama – Pratyahara – Dharana – Dhyana – Samadhi

Con questo verso Patanjali ci introduce agli otto rami da seguire per raggiungere l’ashtanga yoga. Spesso si sente parlare di ashtanga yoga, (aṣṭá significa otto in sanscrito), confondendolo con lo stile dinamico dell’asthanga vinyasa yoga, che in qualche modo si è appropriato del termine.

Qui vorrei soffermarmi sul primo stadio, Yama, in termini generali, per poi partire con le riflessioni sui suoi cinque rami.

अहिंसासत्यास्तेयब्रह्मचर्यापरिग्रहा यमाः॥३०॥
Ahiṁsāsatyāsteyabrahmacaryāparigrahā yamāḥ||30||
Yama sono le astensioni dalle offese, la continenza, l’astensione dall’avidità, la sincerità e l’astensione dal furto

ashtangaCon il termine Yama si intende il primo step, le pratiche morali, anche dette “grandi comandamenti universali”. Nel contesto dello yoga, Yama va inteso come il trattenitore, dalla radice Yam che significa frenare, controllare, cessazione. Yama, quindi è l’astinenza che deve essere applicata ai pensieri, alle parole e alle opere. Queste pratiche mirano a porre il fondamento etico nel Sadhaka (praticante), che reagirà alle situazioni che la vita gli presenterà in accordo con tali osservanze.

Gli Yama si suddividono in cinque filoni: Ahimsa, Satya, Asteya, Brahmacharya, Aparigraha

Yama non riguarda la semplice evocazione dell’opposto di ciò che desideriamo, ma la coltivazione della giusta percezione, così da essere in grado di esaminare i veri fatti e conseguenze della questione che ci troviamo ad affrontare.In parole ancora più semplici, gli Yama sono la coltivazione del positivo che è in noi e non tanto una repressione di ciò che consideriamo essere il suo diabolico opposto 🙂

Basti, la Pulizia del Colon

अथ बस्तिः
नाभि-दघ्न-जले पायौ नयस्त-नालोत्कटासनः |
आधाराकुनछनं कुर्यात्क्ष्हालनं बस्ति-कर्म तत || २६ ||
atha bastiḥ

nābhidaghnajale pāyau nyastanālotkaṭāsanaḥ |
ādhārākuñchanaṃ kuryātkṣhālanaṃ bastikarma tat || 26 ||
Seduti nell’acqua sino all’altezza dell’ombelico, nella posizione di Utkatâsana, si contrae l’ano per aspirare l’acqua, dopo avere introdotto in esso un tubicino e si effettua così un lavaggio: questo è il Basti-karman

Ecco qui la seconda tecnica di purificazione “ufficiale” segnata nebastill’Hatha Yoga Pradipika, il Basti, ovvero il lavaggio completo del colon.

A cosa serve una pulizia del colon? Le risposte potrebbero essere più di mille: favorisce l’espulsione delle feci ristagnanti, delle tossine interne e della flora intestinale patogena; stimola le pareti del colon, favorendo la peristalsi con l’attivazione di una vera e propria ginnastica del colon; aumenta l’irrorazione sanguigna, favorendo il ricambio di ossigeno a livello cellulare e una migliore eliminazione dei prodotti di rifiuto del metabolismo. Svolge quindi un ottimo ruolo di rieducazione del transito intestinale o rimedio in caso di stipsi, meteorismo, candida, rigenerando la flora batterica.

Inutile dire che se lo Hatha Yoga Pradipika lo include fra le sei tecniche di purificazione, questo è dovuto al fatto che l’azione di basti aumenta le capacità nel pranayama, la respirazione, motivo per il quale un discepolo dovrebbe aver padroneggiato quesenteroclismate tecniche prima di intraprendere il pranyama.

Se si legge l’Hatha Yoga Pradipika viene però un po’ di sconforto perché effettivamente la tecnica appare (è) molto complicata oltre, a mio parere, a richiedere un enorme ed inutile dispendio d’acqua, anche perché ai tempi non si disponeva di certi comfort moderni. Quindi possiamo pure bypassare tout court la tecnica scritta negli antichi testi e ricorrere subito alla risposta moderna: il banalissimo enteroclisma, (la borsa di plastica da 1,5 litri, mi raccomando, non la peretta usa e getta!), reperibile in tutte le farmacie.

Come usarlo? Ci sono varie scuole di pensiero. Io personalmente riempo la borsa di un infuso tiepido di camomilla, (ma si può anche usare malva), la semplice bustina va benissimo. Mi raccomaclistere-enteroclisma-300x222ndo, tiepido!, né non troppo caldo né troppo freddo, pensate che finirà in una zona sensibile ^^

Dopodiché si appende la borsa in una zona rialzata, ad esempio la maniglia della finestra se ne avete una in bagno, e possibilmente vicina alla toilette (potete ben immaginare il motivo!). Qui poi ci si può sbizzarrire: si può partire da sdraiati prima su un fianco e poi sull’altro, poi eventualmente in posizione genupettorale. Se si sa eseguire il Nauli (la rotazione dei muscoli retti addominali di cui parlerò prossimamente) ci si può aiutare anche con questo,  affinché l’acqua introdotta circoli in tutte le anse intestinali e rimuova completamente la materia fecale.

Ma per iniziare si può anche stare seduti sulla toilette e verosimilmente sarà sufficiente per sentire il lavoro dell’acqua : )

Quanto spesso? Io cerco di farlo una volta alla settimana, non di più perché preferisco non abituare il corpo ad un agente esterno per svolgere le sue naturali funzioni, ma agli inizi o all’occorrenza, se si sente che se ne ha bisogno, si può eseguire anche più spesso.